Chiacchiericcio misto.

Oggi è un’altra di quelle giornate in cui prenderei a pugni il mondo intero. Eppure il caldo intenso è passato da oltre una settimana, stamattina qui mi sto godendo i 12 gradi e un po’ la cosa mi scoccia pure perché uscendo di casa mi sono resa conto che probabilmente patirò il freddo, almeno nel breve tragitto tra la fermata del tram e il lavoro.
Devo cominciate ad insultare la gente in italiano, non importa se mi capiscono o meno, ma mi sono scocciata che qui la gente mi dice qualcosa di sgarbato (lo percepisco dal tono e dall’espressione), io non capisco un cazzo, non posso nemmeno rispondere perché non saprei come dirlo e quindi tengo tutta la rabbia dentro come quando si discute con qualcuno e, ripensandoci poi, ci vengono in mente mille altri modi o parole che sarebbero stati piú efficaci. Solo che in questo caso io non dico proprio nulla, che è peggio. Quando qualcuno mi dice qualcosa in maniera sgarbata, come l’autista del tram qualche minuto fa, che perché ho corso per non perderlo e appena salita lui mi ha detto “guarda che tra tre minuti ce n’è un altro” (si, in questo caso avevo capito) e poi si è picchiettato una tempia con l’indice, come a dire che sono svitata, un bel ma vaffanculo ci stava proprio tutto. Detto cosi proprio ma vaffanculo testa di cazzo. Aaahhh liberatorio e sano.
E invece no, tengo come sempre tutto dentro.. Si si come sempre, perché mi contengo non solo per la lingua semi sconosciuta, ma in generale, sia che lo sgarbato sia italiano o inglese o qualsiasi altra nazionalità, cazzo non so mai reagire sebbene di norma io sia una persona impulsiva, ma solo con le persone che conosco.
Vi ho mai detto, cambiando discorso ma anche no, che odio tutti gli uomini tranne mio marito mio fratello e mio papá? Avevo un amico tempo fa, ora non piú. Ma se non lo è più evidentemente non lo è mai stato, probabilmente anche lui, come tutti gli uomini, cercava qualcosa di più dalla mia amicizia e quando ha visto che non avrebbe avuto nulla in regalo, ma che per avermi avrebbe dovuto combattere parecchio e (sicuramente) avrebbe pure perso, ha lasciato andare via la nostra amicizia. Ma come dargli torto? Non valgo poi cosí tanto io. Credo.
Non sono particolarmente bella, ho pensieri confusi e altalenanti, un umore diverso ogni giorno (sicuramente con me non ci si annoia mai, ma non è come cambiare giostra a gardaland, è più che altro come assaggiare cibi: alcuni posso piacere, altri no), nel lavoro non sono nessuno, leggo poco e odio il calcio, sono perennemte polemica e pure egocentrica. Ma a volte mi nascondo negli angoli bui della stanza, o sotto le coperte, per non essere vista da nessuno.
Mi ritengo una persona affascinante, solamente per pochi però, per una ristretta élite di persone interessate allo studio delle doppie personalitá (si, per gli psichiatri insomma o per gli amanti dei casi umani).

Vabbeh, chiacchiericcio misto oggi, apparentente senza senso.
Buon fine settimana.

Ode alla mia estate 2.

Ma davvero ora dovete dirmi che cazzo vi piace dell’estate se siete dei lavoratori, no davvero ora mi elencate quali sono le gioie dei 30 gradi quando non siete in vacanza a grattarvi la pancia. Due settimane al massimo di vacanza vi fate no? Siete delle persone normali e forse ne fate una sola come me. Ecco, tre mesi di caldo e patimento per gioire due settimane: voi siete completamente fuori di testa.
A mio avviso avete ancora la testa nel cazzeggio post scuola, quando vi facevate tre mesi di sveglia tardi, a letto tardi, pomeriggio a guardare la tv nel buio del salotto, piscina con amici o mare coi nonni: ci andate al lavoro ora? E allora non venitemi a raccontare che vi piace puzzare dopo 10 minuti che siete usciti di casa, che vi piace avere le mutande bagnate di sudore attaccate al culo e il rivolino che scorre lungo le tempie e che ridotti cosi avete 8 ore davanti a voi che vi aspettano. Ceeeerto, negozi e uffici hanno l’aria condizionata ora, che garantisce la produttività, schiavi del sistema del cazzo, siamo tutti schiavi del sistema.
Ooohhh anche a me piace il caldo se sono all’ombra di una palma con un cocco in mano nella spiaggia di Bali, lo amo. Ma in questa città di merda, che è anche la vostra cittá di merda, tre mesi di patimento sono un lager e ci illudiamo che non sia cosí perché il sistema di merda ci offre quattro piscine comunali sporche e pregne di cloro, centri commerciali ghiacciati dove siamo spinti ad entrare per trovare un po’ di sollievo e quindi, comprare qualcosa che mai ci servirá. Fanculo al sistema di merda: in estate non si dovrebbe lavorare affatto, come se fossimo tutti studentelli felici.
Anche oggi, un’altra giornata di rabbia e sono almeno 10 anni che passo tre mesi all’anno cosí, ho il terrore dell’estate perché mi toglie la voglia di vivere e sorridere, perché la mia normale forza fisica diminuisce, perché mi tenta con freschi e dolci gelati pieni di carboidrati, perché mi obbliga a scoprire le gambe piene di capillari rotti e bianchissime (ma non voglio prendere il sole!) perché mi rovina la pelle e schiarisce i capelli, perché devo mettere in mostra i piedi e trovo che siano volgari, perché vorrei quasi digiunare, ma svengo perché mi mancano le forze. Perché non posso stare stretta al mio amore la notte e non posso farmi abbracciare senza provare ribrezzo per la patina di sudore che si crea allo sfregamento dei corpi, perché devo sopportare la gente piú riconglionita del solito.
Dicono che domani rinfrescherá. Lo spero, altrimenti faccio una strage.

Ode alla mia estate.

Sono in momenti come questi che vorrei alzarmi in piedi ed urlare a squarciagola, oggi l’odio vibra violentemente nelle mie vene, sono cosí nervosa che potrei prendere a sberle il mondo.
Porcatroia odio l’estate piú di qualsiasi altra cosa al mondo, cazzo di vestitini leggeri di merda, cazzo di gente puzzolente allergica al sapone, cazzo di aria pesante che non fa respirare, cazzo di pelli lucide del viso, cazzo di matite occhi sbavate, cazzo di sandali aperti che mostrano piedi mal curati, cazzo di donne che non sanno depilarsi, cazzo di uomini dai peli arruffati, cazzo di mondo imperfetto vorrei vivere nel mio universo di bellezza precisa rotonda quadrata pulita e fresca.
Salvatemi, tre mesi cosí non li sopporto.

Disagio.

È in giorni come questi che il disagio prende forma: diventa lacrime, pugni e mandibola serrati, sguardo al nulla, veleno somministrato a parole come lente dosi di arsenio che dilaniano le interiora.
La pioggia fa solo da sfondo, come nel teatro si cambia la scenografia di cartone per adattarla al momento, anche ora la pioggia sembra essere stata messa li apposta, per accopagnare il disagio di quei giorni in cui Marta vorrebbe solo nascondere la testa sotto il cuscino e piangere fino a quando la riserva di lacrime si è esaurita, gli occhi diventano gonfi e rossi, le palpebre lisce e rosa color delle fragole a maggio. Oppure vorrebbe guardare fuori dalla finestra tutto il tempo, con l’unica sensazione confortante di sentir scendere l’umido calore delle lacrime sulle guance, per testare ancora una volta la sua vitalitá nel momento in cui le lacrime si raffreddano, cominciano a pizzicare sul mento e lei è obbligata ad asciugarle per il fastidio. Quello è il momento della recettivitá, quando l’impulso di alleviare quel fastidioso prurito la obbliga a scuotersi, anche solo per un istante prima di tornare inerme ad osservare il nulla, con la mente vuota e il cuore gonfio di lacrime che aspetta solo di finirne la riserva per poter tornare a battere regolarmente.
Molti piangono per il vuoto che sentono dentro, Marta piange per il pieno che non riesce a buttare fuori; troppe cose gonfiano la sua anima, ma le manca il canale, come quando un fiume straripa di acqua perché non sa dove deviare la portata del momento. E rompe gli argini, perché non sa bene dove dirigere quel tutto che lo gonfia, fa danni.
Forse un giorno Marta troverà quel mezzo, quella via, quel canale, che le consentirá di buttare fuori quel tutto che la opprime. Oppure rimarrá cosí, un’artista mancata, tormentata, gonfia e colma di rammarico per non aver saputo dare la corretta forma al suo disagio.

The tram series: La giacca rossa.

che mi pentirò di aver preso il tram brutto oggi, giá alla prima fermata sono salite due anziane e la puzza del signore qui davanti mi obbliga a tapparmi il naso ad ogni folata di vento. No, scusi signora, sono una scrittrice, devo raccontare al mondo di voi perché il mio pubblico vuole sapere, non posso deluderli, non posso cederle il posto.
Signora, il rosso acceso della sua giacca mi disturba, non le dispiace allontanarsi vero? Capisco che oggi per andare dal medico ha voluto indossare i vestiti della festa, ma mi sento un toro imprigionato nella plaza de toros de Sevilla, ed ad ogni movimento del suo corpo signora, dovuto al fastidioso squotimento del tram nei binari, la mente si agita, l’impulso parte dall’occhio che, notando quel rosso acceso ed invitante, stimola la mente all’attacco. Non mi hanno punto la schiena con le lance, come fanno con il toro prima di farlo entrare nell’arena per farlo arrabbiare; parole piú pungenti di qualsiasi lancia mi hanno trafitto l’anima in passato, poi, sanguinante dall’interno, mi hanno spinto in quella grande arena che è la vita, lasciandomi sola a cucire le ferite del cuore. Cosí mi scaldo alla vista di un rosso acceso, mi ricorda la ferocia di certi atreggiamenti nei miei riguardi che mi hanno tenuta sveglia molte notti; eppure signora la ringrazio: ringrazio lei per non avere il senso del gusto, avendo tentato di abbinare quel rosso feroce con la tonalità tenue e slavata della borsa e quella ancora piú slavata delle scarpe. Ringrazio il suo pessimo gusto, poichè nell’osservarla, il disgusto ha preso il sopravvento, facendomi dimenticare la rabbia provata inizialmente, quando ancora scarpe e borsa erano in posizione nascosta ai miei occhi. E mentre percorreva il corridoio per uscire signora, ancora un mio sguardo si è posato sulla giacca, per un breve istante mi ha fatto ricordare l’infamia subita ingiustamente una decina di anni fa, ma mentre scendendo ha barcollato, la mia attenzione si è nuovamente spostata sulle orribili scarpe e ancora una volta la mia autostima si è arricchita e invigorita. Buona giornata signora, non pianga troppo quando il medico userà fredde parole per la sentenza definitiva sulla sua vita, si aggrappi alla giacca rossa, sperando che qualcuno come me non la scorga prima, decida di rubarla e farne un falò per scaldarsi nelle fredde notti d’inverno.

Il tuo pube è troppo vicino alla mia faccia

Odio il contatto umano, ma odio di più il caldo. Riesco ad apprezzare un po’ di più l’avere gente attorno a me quando fa freddo, almeno hanno l’utilità di scaldarmi, ma quando fa caldo no, il contatto umano mi da fastidio il doppio del normale.
C’è troppa gente in questo tram, per fortuna lo prendo sempre al capolinea cosí ho un posticino assicurato per tutto il viaggio, ma oggi non posso raccontarvi la vita di nessuno perché ho preso il tram brutto, ho persone dietro e davanti, non a lato e fatico cosí a cogliere i dettagli. Dal mio posto vedo schiene, capelli rasati male, pubi poco interessanti e sederi semi scoperti di ragazzine ben svestite per il caldo. Ah, maledetta estate alle porte, dovrò forzarmi per non fare pensieri osceni sui corpi sudati di adolescenti accaldate.
Magari questo posto prenderá una via erotica, chi lo sa, potrebbe essere interessante.
Buona giornata.

The tram series: Katka

Prendo apposta quello che io chiamo tram bello per starmene in pace nel mio posticino senza dovermi piú alzare a causa dell’entrata improvvisa di qualche vechietta claudicante. Il tram bello è grande, i sedili sono a due a due cosí che posso mettermi vicino al finestrino e prima di me dovrebbe comunque alzarsi chi è seduto al mio fianco per cedere il posto.
Non ho mai usato i mezzi per andare al lavoro, solamente il treno a dire il vero, che non chiamo mezzo pubblico perché non so se rientra in questa categoria; si fanno strani incontri qui, indipendentememte dalle ore. Mi piace fantasticare sulla vita delle persone che mi stanno sedute accanto, cogliere dai dettagli e mille sfumature della personalità individuale. Sono una specie di investigatore privato senza scopo, che non fa domande, che non testa, ma che osserva e coglie i dettagli.
Oggi voglio parlarvi di Katka qui accanto a me: legge un giornalino che parla di attività fisica, ovviamente non capisco nulla di ciò che è scritto sia perché non parlo il ceco, sia perché non voglio risultare troppo invadente e spingere la mia faccia sul suo giornalino. Katka non è giovane e nemmeno bella, porta però i suoi 49 anni con discreta dignità, il senso del gusto nell’apparire non le appartiene proprio: abbina un piumino leggero color oro con i capelli dello stesso colore; la borsa in vernice blu prende a schiaffi i consumati pantaloni neri in denim che almeno si accoppiano alle scarpe decisamente fuori moda; non porta i tacchi, Katka vuole essere comoda oggi mentre cammina rapida tra un ufficio e l’altro dell’edificio dove lavora per portare le comunicazioni importanti al capo. Quel capo che piú volte ha girato lo sguardo mentre lei ammiccava un sorriso in sua direzione, piú interessato alla nuova e fresca segretaria appena assunta. Scende a Pyonirska Katka, lo fa frettolosamente, richiudendo il giornalino sportivo rapidamente e riponendolo senza cura nella vecchia borsa in vernice blu. Metterá lo smalto rosso su quelle unghie ora senza colore, pettinerá bene i capelli ispidi, ripetendosi mille volte che il biondo le sta bene perché le illumina il viso, rifiutando l’idea del castano chiaro, troppo da vecchia. E ballerá ancora una volta con quel panciuto uomo sposato ventidue anni fa per non sentirsi sola e mentre ballerá il pensiero sfiorerà quell’attimo in cui il cielo era colore del piombo fuso quando su una panchina del parco il suo primo vero amore le rubò la verginitá, la felicità e la spensieratezza per sempre.

Ciao Katka, buona vita.

Un’altra giornata rovinata.

Anche quella mattina Anita si svegliò piano piano, adorava lo snooze: aveva il vizio di puntare la sveglia mezz’ora prima dell’orario in cui aveva previsto di alzarsi. La faceva suonare tre o quattro volte schiacciando ogni volta pesantemente il tasto centrale; in quegli otto minuti di tempo tra gli allarmi, sonnecchiava o sognava ancora; altri giorni invece faceva programmi per la giornata, programmava l’outfit o il make up, rifletteva sulle sue fortune e guardava di nascosto il suo compagno alzarsi per andare a preparare la colazione: nella penombra della stanza apriva un pochino gli occhi a fessura e controllava i suoi movimenti lenti senza far capire che era sveglia, non le piacevano le brevi effusioni, non poteva sopportare un bacino soltanto, troppo breve e frettoloso a causa del poco tempo a disposizione. Preferiva i caldi e tranquillizzanti abbracci delle mattine festive, quando il tempo concedeva agli amanti di confortarsi a vicenda e superare lo shock del risveglio.
Si legge spesso che quando un feto si separa dalla madre durante il parto, subisce uno shock, è come se il bambino improvvisamente si svegliasse da un torpore, abbandonasse una dimensione calda e confortevole per venire poi messo al mondo in una luminosa e rumorosa sala parto, con persone mai percepite prima che lo toccano, puliscono, infilano cannule nel naso e che finalmente poi lo riportano dalla madre. Ma non è piú la stessa cosa, il ventre ora non c’è più, non può più nascondersi. Lo fará poi, durante il corso delle vita, sotto le coperte, sará come tornare nel caldo ventre materno e assicurarsi una protezione e un riposo confortevoli dalle aggressività del mondo.
Anita non poteva sopportare quello stacco violento dalla sua protezione notturna, il suo rifugio e per poterlo accettare aveva bisogno di un risveglio graduale e dolce, con qualcuno accanto che la rassicurasse che tutto, anche oggi sarebbe stato bello e tranquillo; o bianco o nero: se non poteva riceva il conforto totale, preferiva ricevere nulla e lasciare che compagno andasse a preparare la colazione mentre lei cercava da sola la forza per affrontare una nuova giornata.
Una spinta veniva dalla routine: si sarebbe alzata, la pipí che premeva nella vescica qualche volta era incontenibile; poi con i soliti gesti automatici si sarebbe fatta forza, lavata il viso con l’ultimo detergente bio acquistato, l’aciugamano appena premuto per non rovinare la pelle, una spruzzatina di acqua termale, lenti a contatto e, nell’attesa che l’acqua termale sfiammasse la sua pelle ultra sensisbile prima di mettere la crema, arrivava quel lento ed odiato movimento obbligatorio quotidiano che avrebbe deciso le sorti definitive della giornata.
Con l’alluce andava a premere il bottone della bilancia elettronica per attivarla, un respiro profondo e poi l’apnea, nella speranza vana che, trattenendo il fiato, qualche etto possa essere risparmiato, le mani ai fianchi, le dita premute sulla sommitá delle anche per assicurarsi di sentirle bene e che nessuna ciccia le abbia ricoperte dal giorno precedente.
Sale sulla bilancia, controlla il display solo con un occhio appena socchiuso.
58,2 e la terribile amica dotata di memoria le ricorda che è +0,5 kg da ieri.
Un’altra giornata rovinata.

Frammenti

Ore quattro del mattino. Il bus è pieno di gente stanca e ubriaca, la puzza di fumo fritto e alcool impregna l’aria. Sgranocchio un pezzetto di cioccolata per togliere il pessimo sapore che ho in bocca, la pioggia batte violentemente a terra, mi bagnerò sicuramente i piedi: le ballerine non sono affatto resistenti all’acqua, maledette. Puzza, troppa puzza davvero qui dentro, qualcuno diciamo, si è lasciato andare. Tornerò coi piedi fradici e i capelli umidi anche se coperti dal cappuccio, ma un bella doccia calda e un affettuoso abbraccio sono a casa ad aspettarmi. La ragazza qui accanto aprirá la porta di casa e suo padre sará lí ad aspettarla con il bastone in mano; il ragazzo alla mia destra semplicemente si tufferá vestito a letto, fino a domani a mezzogiorno, quando mamma lo chiamerà per il pranzo. La tizia bionda dalle scarpe orriibili si fionderá nella sua cameretta rosa a smaltire la sbornia e la rossa grassa, sua amica, si alzerá domani mattina e si guarderá allo specchio, come ogni giorno, odiando a morte quei fianchi larghi ed ingombranti.
Non capisco nulla di quello che stanno dicendo, parlano un’altra lingua, decisamente diversa dalla mia, ma non è necessario sapere cosa la gente dice.
È la mia fermata, scusate, devo scendere.

La verità è che vi mentivo

Avevo un blog, anche abbastanza seguito. Poi una pagina Facebook, abbastanza seguita anche quella. Poi ho aperto un canale YouTube, successo moderato. Avevo un account Twitter e un account Instagram, tutti sotto lo stesso nickname. Ora non c’è più nulla di tutto ciò, rimane solamente l’account Instagram perché è l’unico al quale posso cambiare nickname e soprattutto perché Instagram è un social creato  per guardare tanto e ciarlare poco.

In molti mi chiedono: perché? Ogni mezzo ha un suo motivo e sono qui apposta per spiegare tutto.

Quando ho aperto il blog, tre anni fa, l’ho fatto per seguire la moda del momento: c’erano molti blog di moda, di make up, di chiacchiericcio vario e mi sono unita anch’io al coro. Il blog negli anni ha preso diverse pieghe, parlavo di diversi argomenti sempre, ma ultimamente erano più i discorsi seri (o pipponi o sermoni come li chiamavano alcuni) ad occupare le pagine del blog; il mio pubblico era molto vario: da chi mi seguiva per le recensioni, a chi per i pipponi, a chi perché avevo un look alternativo, a chi (pochissimi) perché sono abbastanza carina, a chi invece perché era interessato al mio modo di vedere il mondo, un po’ troppo moderno forse. Spesso chi mi seguiva per il make up si annoiava quando parlavo di omosessualità, chi mi seguiva per le ricette era un po’ restio (e scocciato pure) a leggere le mie prediche su diete e sana alimentazione, chi mi seguiva per gli outfit si annoiava quando consigliavo di fare ginnastica. Il blog rifletteva il mio essere: eclettica (o incoerente, come alcuni ignoranti definiscono le persone che sanno di tutto un po’. L’eclettismo di per sé è correlato all’arte e alla scienza, ma a me piace trasporre il significato anche nella vita quotidiana) In un post in particolare mi auto definivo mediocre, non capendo invece che il mio essere mediamente capace in tutto (ma non specializzata in nulla) non è sintomo di mediocrità, ma di eclettismo: qualità sottovalutata e messa ai margini perché l’individuo eclettico non fa parte di nessuna categoria (se non “eclettico” stesso) e quando non fai parte di un gruppo, un po’ come nel periodo dell’adolescenza, vivi ai margini. Tutta la mia vita è così, non ho mai fatto parte di un gruppo, mi sono sempre sentita estranea in ogni luogo e in ogni compagnia e ho sofferto tanto per questo; mi sono obbligata ad essere quella che non ero solo per far piacere al gruppo del momento, sacrificando il mio vero essere. Anche con il blog, alla fine, è andata così: volevo piacere a tutti (e ci riuscivo eh!), ma sentivo di non poter dire tutto, mi sentivo incatenata, alcune parole obbligate con la forza a bloccarsi nelle dita prima di essere battute sulla tastiera e poi mandate indietro, lungo il braccio prima, nella mente poi e infine nel cuore. Che senso ha scrivere un articolo sull’omosessualità e non poter dire “a me piacciono le donne”? Perché quando parlavo di alimentazione non dicevo chiaramente che io sono talmente ossessionata dal prendere chili che mi peso ogni mattina e che se la bilancia segna un +qualcosa, la giornata è totalmente rovinata e ho la luna storta fino a sera? Mi sono resa conto che non serviva a nulla avere un blog se non potevo esercitare pienamente quella che è una delle pochissime cose (forse l’unica) che so fare davvero bene ossia scrivere per far arrivare dritto al cuore di chi legge il mio messaggio: le mie frasi erano troncate, io sapevo benissimo che alcune di quelle frasi avrebbero dovuto continuare ancora e ancora, che mancava la parte emozionale di tutto il discorso, il mio apporto, la mia rabbia, il mio vero io non mascherato dietro un nickname dal sapore volutamente asiatico.
Io non leggo gli oroscopi, ma ho ancora attivo nel mio numero italiano un abbonamento gratuito per l’oroscopo del giorno, attivato quando ancora ero una ragazzina dal pollice veloce sulla tastiera di un vecchio Panasonic; un giorno l’oroscopo in questione mi invitata a scrivere 5 cose delle mia vita per le quali essere grata e di tenere il foglietto sempre a portata di occhi per godere appieno delle gioie quotidiane. Una di queste gioie appuntate era proprio “la mia scrittura”, seguita da “il mio spirito critico” e da qui la riflessione: come potevo gioire di due qualità personali che io stessa mi limitavo nell’esercitare? urgeva quindi un cambiamento, la necessità di chiudere col passato e aprire una nuova pagina (nel vero senso della parola) di vita che mi desse la possibilità di esprimere totalmente il mio pensiero in assoluta libertà: ecco il perché dell’anonimato, ecco il perché di questo blog, ecco perché questo blog si chiama Odio i Blogs (non sopporto il plurale nei termini inglesi, ma la versione al singolare era già occupata su WordPress). Non odio tutti i blog, odio quelli inutili, che non hanno scopo, che sono lì solo per guadagnare follower. Ma ci sarà un articolo al veleno anche per la blogsfera, non preoccupatevi.

Avevo una pagina Facebook, anzi, prima una, poi l’ho chiusa e ho invitato “chi mi volesse seguire” nella nuova pagina, ma sotto sotto la verità era che io non volevo più far parte del mondo dei social network. Ne ho parlato poco sopra: come quando non sento di far parte di un gruppo anche quando sono all’interno del gruppo stesso, mi sono resa conto che io non ero fatta per stare sui social network. Troppo odio, troppa invidia, troppa falsità, troppo bigottismo, troppa ipocrisia, troppa noia e ancora troppa falsità (perché voglio calcare la mano sulla falsità). I social network sono una bella vetrina dove ogni persona è un ottimo visual merchandiser di se stesso; sono un abito firmato addosso ad un barbone sporco e puzzolente; sono una bella torta di compleanno dalla quale esce una coniglietta di 100 kg. E’ il mondo dell’apparenza, dove spopolano le discussioni inutili perché tanto dietro alla tastiera siamo tutti leoni; è tempo perso, tantissimo tempo perso che potrebbe essere utilizzato, come nel mio caso, per esercitare la scrittura e il mio spirito critico. Ecco perché non ci sono più i social nelle mie app sul cellulare e nella mia barra dei preferiti di Chrome: sono il male. Mi sento tanto uno di quei santoni moderni (o forse un prete?) quando dico che i social sono il male della società moderna, ma credetemi che quando ho visto una nonna che non vedeva il suo nipotino da 3 mesi, con gli occhi incollati su uno schermo da 15 pollici, il dito scorrere sul vetro e gli occhi sbarrati mentre il piccolo voleva giocare con lei, mi sono detta “si, questo è il male”. Guardatevi in giro porcamiseria: giovani a tavola durante un pizza, ragazzini al parco, madri sulle panchine; non si parlano più, la gente si parla solamente attraverso uno schermo ed una tastiera perché è più facile, aiuta la gente a comunicare attraverso una realtà mediata, filtrata, abbellita, semplificata; e la gente preferisce quella realtà piuttosto che la fredda, scura e insicura quotidianità perché è più facile e più veloce. Io non voglio farne parte e non voglio affatto contribuire alla rovina della gente per cui semplicemente boicotto i maggiori social e se proprio proprio ho voglia di eclissarmi dalla realtà quotidiana accedo a WordPress e faccio qualcosa di utile: scrivo. E se proprio proprio l’ispirazione manca allora leggo e mi informo, ma il mio tempo, così prezioso per me stessa, non lo butto a leggere bacheche altrui o a intasare di parole e immagini le bacheche di persone che potrebbero fare altro di più utile.

Certo, Facebook e compagnia bella fanno comodo (e voglio ripetere fanno comodo) perché è più facile mantenere i contatti con persone lontane. Troppo comodo: se tenete veramente ad una persona, se vi piace, se non volete perderla di vista ci sono davvero moltissimi altri modi per comunicare (gratuitamente); richiedono magari un po’ più di fatica, per chiedere un numero di telefono ad esempio bisogna rompere determinati schemi che, a causa dei social network, non vi ricordate più come superare. Personalmente alle persone conosciute in rete e che non volevo perdere di vista ho chiesto il numero per parlare su whatsapp, niente di più facile. Oppure c’è anche chi, per richiamare la mia attenzione visto che ero scomparsa dal web, ha scritto un post sul suo blog per trovare un modo di comunicare con me. I modi ci sono, i mezzi pure: usateli, perché i social ormai vi hanno annullato alcune capacità di problem solving.

Grazie e buona giornata.